Articolo per il periodico Vulcano
(pubblicato sul n. 74 di genn-febbr-marzo 2012)
SCANDALO TANGENTOPOLI, RESA DEI CONTI PER I PARTITI
Venti anni fa prese l’avvio a Milano l’inchiesta giudiziaria Mani pulite:
l’inchiesta che… non ha cambiato l’Italia. Al sassolino dell’arresto di
Mario Chiesa - presidente del Pio Albergo Trivulzio "preso con le mani
nella marmellata" (disse il sostituto procuratore Di Pietro) per avere
intascato una piccola tangente di sette milioni di lire - seguì la
valanga di migliaia di provvedimenti e arresti.
di Tonino Uscidda
CAGLIARI.
Arresti a raffica, dimissioni eccellenti, fughe all’estero, suicidi e interi partiti inghiottiti
dagli scandali. La storia che seguì all’arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio di venti anni fa
fu una slavina giudiziaria, etica e politica, che travolse una intera classe dirigente
cancellando una Repubblica, la prima, che oggi molti non esitano a definire migliore di
quella che l’ha sostituita. Perché? Mani pulite è stata davvero – come sostengono in tanti
- la rivoluzione che non cambiò l’Italia?
I numeri. Furono 70 le procure italiane che avviarono indagini sulla corruzione nella
pubblica amministrazione: emisero oltre 10.000 avvisi di garanzia, poco meno di 5000
arresti, 3.175 richieste di rinvio a giudizio, 1233 fra condanne e patteggiamenti definitivi
e 910 assoluzioni (comprese le prescrizioni e le estinzioni del reato). E’ in questi numeri
la storia di Mani pulite, la storia della fine di un mondo “cancellato” prima nelle aule di
tribunale, poi nelle piazze del referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti;
infine, nelle aule del Parlamento con la nascita della nuova legge elettorale e del sistema
maggioritario.
La domanda. Ma allora perché oggi all’alba della terza Repubblica ci si interroga sul
fallimento della seconda? E’ perché non si è mai smesso di parlare di casta o perché, ad
oggi, la Corte dei Conti ha misurato in 60 miliardi di euro l’anno la corruzione nel nostro
Paese; o perché ora come allora i partiti hanno dovuto cedere il passo ai “tecnici”.
Ribellione, illusioni e speranze. Certo, c’è da dire che sono passati vent’anni e
bisognerebbe rientrare un poco nel clima di quel tempo. C’erano tante speranze e tante
illusioni: si parlò anche di rivoluzione. E rivoluzione fu, proprio perché venne abbattuto
un sistema politico. Ma tra le tante speranze ci fu anche quella, appunto, del referendum
contro il finanziamento pubblico dei partiti.
Era una prima Repubblica, quella di Craxi, Forlani, Longo e “compagnia bella” che si
fondava – come stabilì il pool della Procura della Repubblica di Milano guidato dal
procuratore capo Francesco Saverio Borrelli - soprattutto sulla corruzione e sulle tangenti
condivise; su «..un sistema di dazione ambientale», la frase coniata dall’allora sostituto
procuratore Antonio Di Pietro nelle caratteristiche requisitorie lessicali in tribunale; e
ancora, ebbe a dire il magistrato: «Tutti pagavano qualche cosa e pagavano soprattutto ai
partiti».
A quella ribellione che fu anche ribellione civile e indignazione popolare non seguì quella
che doveva essere anche una sorta di cambiamento morale. Quello della politica.
Casta, corruzione e partitocrazia: parole mai uscite, finora, dal vocabolario corrente. La
speranza è sempre l’ultima a morire ma un modo per sciogliere l’atavica, intricata (…)
matassa potrebbe essere quello di togliere una volta per tutte il finanziamento pubblico
dei partiti come era stato deciso nel referendum abrogativo del 1993 promosso dai
Radicali (il 90,3% degli lettori votanti, 77%, decise di abrogare il finanziamento ma i partiti
non si diedero per vinti rimediando in breve tempo al brutto colpo subito) e come viene
chiesto con forza ancora oggi dal popolo sovrano. Questo perché, è bene ricordarlo, il
finanziamento pubblico è tra i principali elementi corruttori della politica. Come hanno
sottolineato anche molti, inconfutabili, studi storici.
L'ex magistrato Antonio Di Pietro
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(Foto di Tonino Uscidda)
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